CURIOSITA’ NOVARESI 58. IL LAZZARETTO E LA BELLARIA NELLE EPIDEMIE DEI SECOLI SCORSI E LA CALDERINA

Villa Bellaria in una foto d’epoca

Il Lazzaretto, si sa, è un particolare tipo di ospedale destinato all’isolamento degli ammalati incurabili o affetti da malattie contagiose, un luogo quindi preposto al ricovero in quarantena di uomini, merci e animali affetti da malattie contagiose come la peste, il colera, il tifo, il vaiolo o la lebbra. Il primo Lazzaretto è nato a Venezia. Nel 1423 infatti fu una scelta della Repubblica di Venezia, allo scopo di istituire (per la prima volta) un ospedale destinato all’isolamento dei malati di peste. Tra l’altro dal nome dell’isola, scelta per questa necessità, intitolata a Santa Maria di Nazareth, derivò il termine di ”Nazaretum” e poi “Lazzaretto”.

Anche Novara ebbe il Lazzaretto. L’indicazione del primo Lazzaretto e del luogo ove si trovava risale al 1630, l’anno della grande epidemia di peste, su cui si sofferma anche Alessandro Manzoni nel suo famoso romanzo “Promessi sposi”. Come si può leggere nel volume “Porta Mortara …ieri …oggi”, a cura di Giuseppe Ballarè, pubblicato dal Consiglio di Quartiere di Porta Mortara (Tipolitografia Artigiana, Novara, 1996) e grazie alle ricerche storiche di Gaudenzio Barbé, Paola Gregis e Guido Guida, che hanno consentito la realizzazione dello stesso libro, vediamo che l’indicazione “si trova in un documento, rinvenuto da Frasconi nell’Archivio della Confraternita di Santa Maria del Monserrato (Testamenti, Legati, N. 20)”. Nel documento si cita la località chiamata la Cantarana a proposito del Lazzaretto dove venivano portati i malati di peste. Il testamento era di Gian Antonio Manfredda di Novara e la Cantarana era nel sobborgo di S. Stefano, che si trovava oltre la cinta muraria e lungo la strada per Mortara, come si desume da una pianta del 1610.

Più tardi è la cosiddetta Villa Bellaria (nella foto d’epoca) ad assumere la funzione di Lazzaretto. La Bellaria nell’Ottocento era considerata “casa per villeggiatura”. Nel volume già richiamato abbiamo una sua descrizione: “Costruita su tre piani, aveva complessivamente tredici vani, ed era circondata da

Palazzi della Bellaria in foto d’epoca

giardino e da alberi di alto fusto. Apparteneva alla famiglia Mazza, poi fu ceduta al Seminario Vescovile …”.  Il Comune di Novara acquistò edificio e terreno circostante nel 1891 e lo trasformò praticamente in Lazzaretto. Vennero lì curate quindi le varie epidemie che arrivarono a Novara: spagnola, tifo, malaria ecc…, come si legge nei giornali cittadini dell’epoca. Dopo l’ampliamento dell’Ospedale Maggiore degli anni Trenta del secolo scorso il Municipio concesse ad enti diversi l’intera struttura finché nel 1943 l’Ospedale Maggiore, per la rilevante necessità di locali dove curare i feriti di guerra, chiese al Comune di destinare nuovamente la Villa Bellaria al reparto per la cura delle malattie infettive. Il Comune ritenne di accogliere la richiesta e di concederla gratuitamente fino all’ottobre 1947. Nei successivi anni Cinquanta ne rientrò però in possesso, utilizzandola quindi, assieme ai due capannoni della vecchia cascina, ad uso di abitazioni popolari, dove furono ospitarti profughi, sfrattati, persone in difficoltà economiche ed emigranti.

Nel 1952 inoltre il Comune decise di costruire in quella zona due palazzi (nella foto d’epoca), conosciuti come quelli della “Bellaria”, per fare fronte alla necessità di alloggi per famiglie, a seguito della grande immigrazione dal Sud Italia. Inizialmente si pensò a due edifici di tre piani, ma poi si progettò il sopralzo di altri due piani, a seguito di un maggiore prevedibile afflusso di immigrati. I lavori furono ultimati nel 1957, mettendo a

Parchetto della Bellaria

disposizione 79 alloggi, con i servizi sui ballatoi. Nei seguenti anni Sessanta poi venne abbattuta la struttura dell’antico Lazzaretto e i due capannoni. I due “nuovi” palazzi furono utilizzati per oltre 35 anni, ospitando centinaia di famiglie, ma con il passare degli anni, trascurati e in assenza delle necessarie manutenzioni, andarono in degrado fino alla condizione di inabitabilità. Nel 1989 il Comune decise la loro demolizione, ma prima si occupò di sistemare in altri alloggi della Città le famiglie che ancora vi abitavano.

Attualmente al posto delle case della “Bellaria” vi è un’area verde (nella foto); il parchetto della Bellaria si trova nell’area tra via Monte Grappa, via Ortigara e viale Giulio Cesare e a lato è stato realizzato un parcheggio pubblico.

Non lontano dalla “Bellaria” in passato esisteva un altro complesso di particolare valore sociale. Stiamo parlando della “Calderina” (nella foto d’epoca vediamo l’imponente facciata), che sorse nel 1896 in via Monte San Gabriele, appena prima (arrivando dal centro cittadino) dell’attuale viale Giulio Cesare e dopo l’incrocio con l’attuale via Monte Nero. A quei tempi le uniche vie esistenti nella zona erano via Gorizia e appunto via Monte San Gabriele, che si snodavano dalla chiesetta, che fu poi sostituita dall’attuale chiesa parrocchiale di San Giuseppe.

Facciata della Calderina in foto d’epoca

La struttura era molto ampia, di forma quadrangolare, e in origine era una cascina. Nel volume già citato “Porta Mortara …ieri …oggi” troviamo una descrizione della “Calderina”, con interessanti notizie sulla stessa: “Prima di essere adattata a casa popolare, per un certo periodo di tempo fu adibita ad alloggiamento per militari (come è stato riferito da alcuni testimoni diretti). C’era un unico ampio portone d’ingresso per permettere il passaggio dei carri verso l’interno dove si apriva un immenso cortile. Il lato a sinistra che un tempo era una stalla era stato ristrutturato in tante piccole abitazioni a monolocale dove vivevano in genere le persone anziane. Di fronte c’era il pollaio e gli altri due lati avevano l’aspetto tipico delle case di ringhiera. Attraverso le rampe di scale si accedeva ai vari piani composti da stanze una di seguito all’altra, collegate tra loro da un unico lunghissimo balcone per ogni piano: la ‘ringhiera’. All’interno del cortile vi era un pozzo per attingere l’acqua per l’uso quotidiano e poco distante un lavatoio coperto, a quattro vasche, che le donne riempivano con l’acqua del pozzo vicino per lavare i panni. La parte più signorile era quella dell’ingresso che doveva essere stata una volta l’alloggio degli Ufficiali. C’era infatti anche un servizio in casa mentre le altre ali della Calderina avevano una turca per ogni piano in comune con tutte le famiglie dello stesso ballatoio. Su un angolo tra i tetti c’era una torretta che divenne presto il regno delle civette. Vi abitavano 54 famiglie…”. Gli abitanti della Calderina erano per lo più di estrazione operaia e anche le donne lavoravano in fabbrica o come mondine nelle risaie, mentre i bimbi crescevano nel cortile guardati a vista dalle nonne o dalle anziane vicine di casa, mentre i bambini più grandi frequentavano l’asilo e la scuola elementare della vicina Cittadella. Quando tornavano a casa poi “curavano i fratelli minori e trascorrevano ore spensierate in cortile giocando alla palla o alla ‘lippa’ (un antenato povero del baseball)”, come leggiamo nel già citato libro e ancora: “Non esisteva il problema della solitudine per i vecchi.  Il loro patrimonio di cultura popolare veniva trasmesso ai giovani e la sera, prima del riposo al termine della faticosa giornata di lavoro, le donne in cortile si scambiavano le confidenze”. La Calderina è stata abbattuta nei primi anni Settanta del secolo scorso e con essa è venuto meno un pezzo di storia del quartiere di Porta Mortara. Al suo posto ora un parchetto, che ne ha mantenuto la

Parchetto della Calderina

denominazione (nella foto).

Enzo De Paoli